Davide Brivio, che dopo aver lasciato la Suzuki alla fine del 2020 ha ricoperto il ruolo di direttore di gara nel team Alpine in Formula 1 nel 2021, è arrivato in MotoGP nel 2002, dopo l’esperienza nel mondiale Superbike. Yamaha gli aveva offerto un contratto come team manager nella classe regina del mondiale e, un anno dopo l’approdo a Iwata, Brivio e Lin Jarvis, direttore sportivo Yamaha, hanno unito le forze per lanciare una delle offensive più celebri di sempre.
La situazione in quel momento giocava a loro favore: negli ultimi tre anni Rossi era stato il pilota di punta Honda, ma la sufficienza con cui si stava imponendo e la mancanza di competitività degli altri costruttori (Yamaha non conquistava un titolo dal 1992 con Wayne Rainey) avevano fatto nascere l’idea che il successo dipendesse più dalla moto che dal pilota. Si pensava che quasi chiunque potesse imporsi in sella a una NSR prima o a una RC211V successivamente. La matematica è molto rivelatrice in questo caso: nelle 11 stagioni tra il 1993 e il 2003, Yamaha aveva vinto 24 gran premi, mentre Honda 117, quasi cinque volte di più.
Questa era stata la corda che avevano toccano Brivio e Jarvis e che aveva convinto Il Dottore ad affrontare la sfida più grande della sua carriera. La storia sembra molto più semplice di quanto non sia stata in realtà, soprattutto perché, anche dentro la stessa Yamaha, c’erano persone che non vedevano bene l’arrivo di Rossi, per il rovescio della medaglia che poteva esserci se le cose non fossero andate come si era progettato.
“In un primo momento, Yamaha non voleva ingaggiare Rossi, perché c’era una corrente che sosteneva che in casi di vittoria tutti pensassero che sarebbe stato solo merito suo. Se invece non avesse vinto, la colpa si sarebbe concentrata sulla moto”, racconta Brivio a Motorsport.com. “Chi ha cambiato questo pensiero è stato Masao Furusawa, che a giugno del 2003 è diventato leader del progetto. È stato lui a convincere il presidente Yamaha che bisognava ingaggiare Valentino. Tra tutti abbiamo convinto i vertici del fatto che, per vincere, era imprescindibile avere un top ridere. Honda vinceva, sì, ma lo faceva con i migliori: Doohan e Rossi”, aggiunge l’italiano, che si mantiene in silenzio circa un possibile ritorno in MotoGP, magari con Suzuki.
Yamaha aveva impiegato meno di un anno a chiudere tutti i dettagli che avrebbero portato Valentino a correre con la Casa di Iwata nel 2004. L’importanza dell’obiettivo che si provava a raggiungere era così incredibile che gli incontri fra il pilota di Tavullia e quello che sarebbe stato il suo futuro team si erano dovuti svolgere in un clima di assoluta segretezza. Soprattutto perché Honda gli aveva messo sul tavolo in diverse occasioni il contratto di rinnovo. Una delle strategie pensate da Yamaha era come Rossi avesse dovuto lasciare la casa dell’ala dorata.
“Durante il Mondiale 2033, ci vedevamo con Vale quasi ogni fine settimana di gara per parlare di molte cose. La formazione del team, quali meccanici voleva portare con sé, come affrontare i test e altre cose. Il problema era dove vederci, perché nel paddock sei sotto gli occhi di tutti enegli hotel tutti i team sono mischiati”, prosegue Brivio, che ricorda in particolare due momenti così bizzarri che resteranno per sempre nella sua mente.
“Uno degli episodi più buffi è stato quello della Clinica Mobile, a Brno. Ci siamo visti lì alle dieci di sera passate, quando tutti i fisioterapisti e i medici erano andati via. Abbiamo aperto la zip della tenda, siamo entrati e ci siamo seduti intorno a un tavolo che c’era lì, poi abbiamo iniziato la riunione. All’improvviso abbiamo sentito una moto che si avvicinava e sia io sia Lin ci siamo nascosti sotto il tavolo”, racconta Brivio.
Quando è arrivato il momento di negoziare, Gibo Badioli, all’epoca agente di Rossi, era andato troppo oltre, poi si era ridimensionato. “A livello economico, le esigenze di Badioli erano state spropositate in un primo momento. Poi siamo riusciti ad arrivare ad un accordo. Penso che dopo, con quello che è riuscita a vendere Yamaha, ha recuperato con gli interessi quell’investimento”, ricorda Brivio, che conserva il ricordo di quella mezzanotte in cui Rossi aveva conosciuto per la prima volta quella che qualche mese dopo sarebbe stata la sua nuova moto.
“Dopo esserci stretti le mani, era arrivato il momento in cui Vale voleva vedere la moto. È stato a Donington Park. Abbiamo aspettato la mattina presto, perché volevamo che nel paddock non ci fosse nessuno. Lui è entrato incappucciato per non farsi riconoscere”, ricorda l’attuale dirigente di Alpine, che in maniera indiretta ha restituito ai piloti l’attenzione che hanno ancora oggi.
motorsport.com
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