“Due rette distinte, nello stesso piano euclideo, sono parallele se e solo se non hanno alcun punto in comune, cioè se non si incontrano mai”. Per illustrare il finale della vicenda doping di Andrea Iannone serve un teorema di geometria. Su una retta c’erano il pilota e il suo entourage legale, sull’altra la Wada, agenzia mondiale anti-doping. Uno sosteneva la contaminazione alimentare inconsapevole, portando a suo discarico quelle che riteneva prove solide.
L’altra ha ritenuto queste prove del tutto insufficienti e forse ha sempre considerato la positività frutto di una assunzione volontaria, senza mettere mai in dubbio le sue convinzioni. Siccome alla Corte Arbitrale dello Sport non esiste un Aldo Moro, cui sessant’anni fa venne attribuito l’ossimoro della convergenze parallele in politica, un punto di contatto non c’è stato. Così Iannone si è preso quattro anni di stop, dai 18 mesi del primo verdetto nel marzo scorso. Fine dei giochi.
Con l’aggravante di una vittima collaterale, l’abbiamo scritto in tempi non sospetti: l’Aprilia, corretta e rispettosa fino allo stremo. Che, anche a causa dei tempi dilatati del verdetto, si è vista sfuggire diversi piloti utili alla causa futura. Magari Dovizioso avrebbe lasciato ugualmente i GP, forse Crutchlow avrebbe preso comunque la strada dei collaudi in Yamaha. Intanto i due non sono più sul mercato e il 2021 è vicino. Resta, analizzando la sentenza, la sensazione di una partita giocata con uno sforzo difensivo più esibito che mirato. Se alla Wada si doveva far conoscere la provenienza della carne contaminata, era necessario far di tutto per tracciarne l’origine.
A costo di tornare in Malesia e indagare a fondo in tutti i ristoranti coinvolti. Contro la rigidità dell’agenzia non sarebbe servito? Vero, ma avrebbe reso molto difficile coltivare altri dubbi.
La Gazzetta dello Sport 11 novembre 2020 di Gianluca Gasparini
L’altra ha ritenuto queste prove del tutto insufficienti e forse ha sempre considerato la positività frutto di una assunzione volontaria, senza mettere mai in dubbio le sue convinzioni. Siccome alla Corte Arbitrale dello Sport non esiste un Aldo Moro, cui sessant’anni fa venne attribuito l’ossimoro della convergenze parallele in politica, un punto di contatto non c’è stato. Così Iannone si è preso quattro anni di stop, dai 18 mesi del primo verdetto nel marzo scorso. Fine dei giochi.
Con l’aggravante di una vittima collaterale, l’abbiamo scritto in tempi non sospetti: l’Aprilia, corretta e rispettosa fino allo stremo. Che, anche a causa dei tempi dilatati del verdetto, si è vista sfuggire diversi piloti utili alla causa futura. Magari Dovizioso avrebbe lasciato ugualmente i GP, forse Crutchlow avrebbe preso comunque la strada dei collaudi in Yamaha. Intanto i due non sono più sul mercato e il 2021 è vicino. Resta, analizzando la sentenza, la sensazione di una partita giocata con uno sforzo difensivo più esibito che mirato. Se alla Wada si doveva far conoscere la provenienza della carne contaminata, era necessario far di tutto per tracciarne l’origine.
A costo di tornare in Malesia e indagare a fondo in tutti i ristoranti coinvolti. Contro la rigidità dell’agenzia non sarebbe servito? Vero, ma avrebbe reso molto difficile coltivare altri dubbi.
La Gazzetta dello Sport 11 novembre 2020 di Gianluca Gasparini
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