Omobono Tenni
"Poche cose nella durata di questa nostra vita equivalgono a una curva ben presa in motocicletta. Quell'atto estatico, per il quale ci si inclina e s'asseconda la traiettoria del nostro verosimile uscire di strada, e per? con un abbandono cos? tanto in equilibrio e puro da mantenerci per un filo attaccati alla strada. E prima, nel rettilineo la scelta dell'attimo in cui inclinarsi, l'abbandono, che ? un alzarsi al cielo, e fiducia infantile, totale per la quale si rinuncia alle leggi della gravit? e della consuetudine. L'anima allora pare quasi distaccarsi dal corpo e proseguire, come camminando su un'invisibile tangente, e noi con lei. E poi la circolarit?: il ritorno in un corpo, ma per un mondo diverso, circolare, la cui unica legge ammessa ? fidarsi nell'abbandono; e il divenire sferico di tutto. Volere, tenere questa sfericit? sino infine a uscirne e a rientrarci ritmicamente. Un circuito ? un ritmo ripetuto di questi abbandoni circolari, che ritornano perfetti, puntuali, attesi: tra i rari luoghi in terra in cui la fiducia sia ripagata. La curva in macchina ? un'altra cosa, non entra nella curva aderendovi; altra forza, altro occhio e altro cuore si richiedono per rimanere in equilibrio; c'? solo abile adeguamento del mezzo alla tangenza di una curva. Non c'? quel piegarsi, e l'impennarsi del corpo verso il cielo, l'abbandono totale a una velocit? che siamo noi, e che per essere tale deve essere senza pi? attrito, perfetta. Come quella che riusciva ad esistere nell'anima del grande Omobono Tenni.
Una foto lo riprende in curva, al Tourist Trophy, piegato fino all'inverosimile sulla pista, e tuttavia con la moto ed il corpo, come inarcati, ambedue verso il cielo. Una scritta in inglese completa l'immagine e recita: <<Giornalisti lungo il percorso riportano che Tenni sta curvando con un pazzo abbandono, s? da creare dubbi circa la possibilit? che egli finisca la gara fatto a pezzi invece che tutto intero>>. La gara era delle rare che ancora Tenni non avesse vinto. E Gherzi, Arcangeli, Bandini, persino Achille Varzi vi si erano cimentati inutilmente. Nel 1937 Stanley Wood, e Smith, e il tedesco Kluge, s'alternarono nei primi due giri in testa; ma al terzo, Omobono Tenni risaliva al comando, percorrendo tra l'altro il giro pi? veloce mai effettuato su quella pista. Al sesto giro la sua Guzzi aveva accumulato due minuti e trenta di vantaggio. Parve a tutti che avesse gi? vinto. E invece la moto cominci? a perdere colpi: vir? rallentando verso i box per sostituire una candela. Lui ripart? ferocemente s?, ma con uno svantaggio che tutti ritenevano incolmabile. Inizi? una memorabile rincorsa. Addirittura i segnalatori lungo la pista annunciarono che Tenni a quella velocit? spaventosa non sarebbe giunto indenne al traguardo. Riguadagn?, storcendosi in curva con accelerazioni impossibili, il tempo che gli altri gli rubavano nei rettilinei.
Vinse alla grande, e per gli inglesi lui, mite e silenzioso, al punto che credettero che fosse muto, meccanico a Treviso divenne Black Devil . Una rivista inglese riport?: <<Il pubblico dice di non avere mai visto nulla di simile, al ponte di Sulby: Tenni letteralmente spazzolava il muro con la spalla>>.
Vinse anche a Berna, Locarno, Luino, Barcellona e Zurigo, e in tre campionati italiani e in un numero d'altre gare troppo elevato per poterle ricordare tutte. Si chiamava per altro Tommaso, e non Omobono, ch'era il nome che i suoi amici veneti gli avevano dato. Ma per l'eternit? a per tutti sar? Omobono. E il soprannome dice abbastanza della sua indole. Tra l'altro pare che neppure i figli sapessero il suo vero nome, e lo chiamassero, sbrigativi, Tenni. Gli occhi miti erano incorniciati da un viso che definire determinato ? poco: la mascella tagliata in mezzo, le sopracciglia folte e cispute, i capelli a onda che parevano filo metallico, il sorriso duro, difficile. Tenni pareva scolpito in una carne diversa da quella che componeva gli altri uomini. In effetti era letteralmente fatto di ferro, per causa dei chiodi e delle viti che gli legavano le ossa. Come il numero delle gare che vinse rimase imprecisato, tanto ? vasto, cos? ? la serie dei suoi ricoveri nei reparti di ortopedia. Lui non ci badava troppo. Una volta mentre si allenava per la Milano-Napoli, che vinse, and? a cozzare contro un autocarro, ci rimise due dita del suo piede sinistro. Ma prima di lasciarsi controvoglia accompagnare all'ospedale, volle ritrovare le sue dita e le consegn? a un compagno di corse perch? le portasse come un cimelio alla Guzzi. Nel 1948 aveva quarantatr? anni eppure ancora vinceva: a maggio vinse col solito silenzio, spavaldo e ferreo, a Cesena. E il primo di aprile corse a Baumgarten, in quelle foreste elvetiche verde scuro, e che per? la luce del tramonto filtrata dagli abeti illumina di tiepide policromie. Dei goccioloni di pioggia ritmici luccicavano sull'asfalto della pista, mentre i meccanici ai box attendevano il passaggio di Tenni. Inutilmente. Alla curva
dei pini li attendeva un corpo esanime. Era sbalzato di sella, e volando tra due enormi piante, s'era infine rotto, spezzato contro un albero giovane, morbido e sottile. Che una pianticella cos? esile abbia potuto spezzare la vita di un gigante come Tenni, rest? per molti un enigma. Eppure vi era in ambedue comune una morbidezza dell'anima, sempre sferica."
"Poche cose nella durata di questa nostra vita equivalgono a una curva ben presa in motocicletta. Quell'atto estatico, per il quale ci si inclina e s'asseconda la traiettoria del nostro verosimile uscire di strada, e per? con un abbandono cos? tanto in equilibrio e puro da mantenerci per un filo attaccati alla strada. E prima, nel rettilineo la scelta dell'attimo in cui inclinarsi, l'abbandono, che ? un alzarsi al cielo, e fiducia infantile, totale per la quale si rinuncia alle leggi della gravit? e della consuetudine. L'anima allora pare quasi distaccarsi dal corpo e proseguire, come camminando su un'invisibile tangente, e noi con lei. E poi la circolarit?: il ritorno in un corpo, ma per un mondo diverso, circolare, la cui unica legge ammessa ? fidarsi nell'abbandono; e il divenire sferico di tutto. Volere, tenere questa sfericit? sino infine a uscirne e a rientrarci ritmicamente. Un circuito ? un ritmo ripetuto di questi abbandoni circolari, che ritornano perfetti, puntuali, attesi: tra i rari luoghi in terra in cui la fiducia sia ripagata. La curva in macchina ? un'altra cosa, non entra nella curva aderendovi; altra forza, altro occhio e altro cuore si richiedono per rimanere in equilibrio; c'? solo abile adeguamento del mezzo alla tangenza di una curva. Non c'? quel piegarsi, e l'impennarsi del corpo verso il cielo, l'abbandono totale a una velocit? che siamo noi, e che per essere tale deve essere senza pi? attrito, perfetta. Come quella che riusciva ad esistere nell'anima del grande Omobono Tenni.
Una foto lo riprende in curva, al Tourist Trophy, piegato fino all'inverosimile sulla pista, e tuttavia con la moto ed il corpo, come inarcati, ambedue verso il cielo. Una scritta in inglese completa l'immagine e recita: <<Giornalisti lungo il percorso riportano che Tenni sta curvando con un pazzo abbandono, s? da creare dubbi circa la possibilit? che egli finisca la gara fatto a pezzi invece che tutto intero>>. La gara era delle rare che ancora Tenni non avesse vinto. E Gherzi, Arcangeli, Bandini, persino Achille Varzi vi si erano cimentati inutilmente. Nel 1937 Stanley Wood, e Smith, e il tedesco Kluge, s'alternarono nei primi due giri in testa; ma al terzo, Omobono Tenni risaliva al comando, percorrendo tra l'altro il giro pi? veloce mai effettuato su quella pista. Al sesto giro la sua Guzzi aveva accumulato due minuti e trenta di vantaggio. Parve a tutti che avesse gi? vinto. E invece la moto cominci? a perdere colpi: vir? rallentando verso i box per sostituire una candela. Lui ripart? ferocemente s?, ma con uno svantaggio che tutti ritenevano incolmabile. Inizi? una memorabile rincorsa. Addirittura i segnalatori lungo la pista annunciarono che Tenni a quella velocit? spaventosa non sarebbe giunto indenne al traguardo. Riguadagn?, storcendosi in curva con accelerazioni impossibili, il tempo che gli altri gli rubavano nei rettilinei.
Vinse alla grande, e per gli inglesi lui, mite e silenzioso, al punto che credettero che fosse muto, meccanico a Treviso divenne Black Devil . Una rivista inglese riport?: <<Il pubblico dice di non avere mai visto nulla di simile, al ponte di Sulby: Tenni letteralmente spazzolava il muro con la spalla>>.
Vinse anche a Berna, Locarno, Luino, Barcellona e Zurigo, e in tre campionati italiani e in un numero d'altre gare troppo elevato per poterle ricordare tutte. Si chiamava per altro Tommaso, e non Omobono, ch'era il nome che i suoi amici veneti gli avevano dato. Ma per l'eternit? a per tutti sar? Omobono. E il soprannome dice abbastanza della sua indole. Tra l'altro pare che neppure i figli sapessero il suo vero nome, e lo chiamassero, sbrigativi, Tenni. Gli occhi miti erano incorniciati da un viso che definire determinato ? poco: la mascella tagliata in mezzo, le sopracciglia folte e cispute, i capelli a onda che parevano filo metallico, il sorriso duro, difficile. Tenni pareva scolpito in una carne diversa da quella che componeva gli altri uomini. In effetti era letteralmente fatto di ferro, per causa dei chiodi e delle viti che gli legavano le ossa. Come il numero delle gare che vinse rimase imprecisato, tanto ? vasto, cos? ? la serie dei suoi ricoveri nei reparti di ortopedia. Lui non ci badava troppo. Una volta mentre si allenava per la Milano-Napoli, che vinse, and? a cozzare contro un autocarro, ci rimise due dita del suo piede sinistro. Ma prima di lasciarsi controvoglia accompagnare all'ospedale, volle ritrovare le sue dita e le consegn? a un compagno di corse perch? le portasse come un cimelio alla Guzzi. Nel 1948 aveva quarantatr? anni eppure ancora vinceva: a maggio vinse col solito silenzio, spavaldo e ferreo, a Cesena. E il primo di aprile corse a Baumgarten, in quelle foreste elvetiche verde scuro, e che per? la luce del tramonto filtrata dagli abeti illumina di tiepide policromie. Dei goccioloni di pioggia ritmici luccicavano sull'asfalto della pista, mentre i meccanici ai box attendevano il passaggio di Tenni. Inutilmente. Alla curva
dei pini li attendeva un corpo esanime. Era sbalzato di sella, e volando tra due enormi piante, s'era infine rotto, spezzato contro un albero giovane, morbido e sottile. Che una pianticella cos? esile abbia potuto spezzare la vita di un gigante come Tenni, rest? per molti un enigma. Eppure vi era in ambedue comune una morbidezza dell'anima, sempre sferica."
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