Nell'autunno del 2019, poco prima che il Covid costringesse il mondo a chiudere le sue frontiere, un'associazione internazionale di giornalisti ha deciso di indagare su un argomento in quel momento caldo: che cosa sta facendo la Cina con i media?
La risposta è contenuta nel primo rapporto pubblicato dall'associazione: la Cina sta cercando di creare un'alternativa all'informazione mondiale, spesso dominata da canali come la Bbc e Cnn. E come? Pagando le testate nazionali di piccoli paesi, come la Guinea-Bissau o il Kenya, per distribuire all'interno del loro paese versioni in inglese del quotidiano China Daily.
E cosa intende fare la Cina con questo nuovo potere? Si sono chiesti i giornalisti internazionali, che mercoledì, con la Federazione che ha sede a Bruxelles, pubblicheranno i risultati di questa seconda ricerca. Il New York Times ha avuto modo di visionare in anteprima i risultati, ed ecco che cosa ne è emerso.
«Quando la pandemia ha iniziato a diffondersi, Pechino ha utilizzato la sua infrastruttura mediatica per diffondere una visione positiva della Cina e per fare disinformazione» ha scritto nel rapporto la signora Louisa Lim, ex capo ufficio dell'NPR a Pechino e ora docente presso l'Università di Melbourne. «È quello che hanno sempre fatto gli Stati Uniti» hanno fatto sapere da Pechino.
Così è successo che i giornalisti italiani hanno raccontato di aver subito pressioni per divulgare il discorso di Natale del presidente Xi Jinping, tanto da averne ricevuta una versione tradotta in italiano. In Tunisia, l'ambasciata cinese ha regalato all'emittente statale disinfettante e mascherine, pagato per rinnovare le costose apparecchiature televisive e offerto contenuti gratuiti pro-Cina. In Serbia un tabloid filo-governativo ha sponsorizzato un cartellone con l'immagine del leader cinese e le parole: «Grazie, fratello Xi».
Le campagne cinesi sui media, e quelle sui vaccini, si sono intrecciate con il programma di investimenti globali «Belt and Road», in cui il sostegno di Pechino ai paesi che vi aderiscono è vincolato non solo dal debito, ma anche dalle votazione chiave all'interno delle Nazioni Uniti.
«Pechino sta costantemente rimodellando il panorama mediatico globale nazione per nazione», ha affermato la signora Lim.
Non tutto il gruppo di 54 giornalisti interpellati è d'accordo sull'interpretazione da dare a questi segnali: se alcuni sono allarmisti per le troppe pressioni del governo cinese, altri credono che si tratti di un altro gruppo di interesse in un panorama mediatico disordinato e complesso.
Tra i meno allarmati c'è l'Ansa. Il vicedirettore Stefano Polli ha ammesso che la Cina sta utilizzando sempre di più i media per «avere maggiore influenza nel nuovo equilibrio geopolitico» ma ha difeso il contratto di Ansa, che i giornalisti internazionali invece criticano nel rapporto, come un normale accordo commerciale.
Luca Rigoni ha raccontato che quando lavorava a Tgcom24 diretto di Paolo Liguori la redazione non aveva corrispondenti a Pechino ma un contratto formale con i media statali cinesi per i reportage dalla Cina. La collaborazione si è però interrotta quando il telegiornale ha ipotizzato che il virus fosse uscito da un laboratorio cinese. «Non è l'unico paese in cui i principali programmi televisivi e radiofonici sono controllati dal governo o dal parlamento», ha detto Rigoni.
E il segretario generale della Federazione internazionale dei giornalisti, Anthony Bellanger, ha dichiarato in una e-mail che la sua opinione sul rapporto è che «mentre la Cina è una forza crescente nella guerra dell'informazione, è anche vitale resistere alle pressioni esercitate dagli Stati Uniti, Russia e altri governi in tutto il mondo».
Non c'è dubbio su quale governo sia più impegnato in questa campagna adesso. Un rapporto dello scorso anno di Sarah Cook per la Freedom House, un gruppo senza scopo di lucro americano che sostiene la libertà politica, ha scoperto che Pechino spendeva «centinaia di milioni di dollari all'anno per diffondere i suoi messaggi al pubblico di tutto il mondo».
notizia da: Dagonews dal New York Times
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